Sabato 28  marzo 2020,

un sabato di primavera, un sabato molto diverso dagli altri, differente per me,  differente per tutti. 

Sono ormai passate tre settimane dall’ultimo giorno in cui sono uscito di casa. Era la mattina del 7 di marzo, un sabato di bel tempo dopo un venerdì piovoso e già la paura iniziava a farsi strada, ma non c’erano ancora le mascherine a coprire i volti delle persone. C’era tanta preoccupazione che copriva le facce ma insieme ad un senso di distacco dalla realtà. Qualcuno per strada ne parlava, qualcun altro con arrogante certezza affermava di non temere per una influenza o poco più. Maschere forse anche quelle a nascondere la paura di quello che stava per accadere. 

E poi è purtroppo accaduto. 

La vita completamente cambiata, rinchiusi in casa, costretti a difenderci da un virus invisibile per provare così anche a difendere gli altri, anche chi non conosciamo, per non far girare il virus, non far continuare la sua diffusione. 

Eppure in queste settimane i contagi continuano ad aumentare, le morti a moltiplicarsi giorno dopo giorno. Le storie di sofferenza e di dolore di uomini e donne morti senza il conforto dei loro cari sono sempre di più e fanno male ogni volta che le ascolto. E poi si parla di guerra, di bollettino, annunciato ogni sera dalla protezione civile, con il numero dei contagiati, dei decessi. Sì, decessi, è questa, la parola, che ho imparato a conoscere, forse perché la parola morti è troppo crudele per essere utilizzata. Però, come li si chiami, sono più di 9.000 le persone che oggi non ci sono più. Le persone che non siamo riusciti a difendere da questo virus che li ha strappati via ai loro affetti, alla possibilità magari di poterli incontrare e conoscere un giorno. Questa cosa mi sconvolge. Come mi sconvolge il fatto che ancora alcuni italiani facciano di tutto per non rispettare l’unico compito che gli è stato assegnato: stare a casa!

Mi domando come sia possibile. Eppure basta affacciarci dalle finestre per vedere che c’è ancora troppa gente per strada. 

Allora penso che forse sono i termini ad essere sbagliati. Parlare di guerra al virus forse è un errore, uno dei tanti fatti fin qui. Insomma è dimostrato che dalle guerre in tanti tentino di fuggire, e spesso le guerre fanno vittime proprie tra le persone che provano a scappare. Forse sarebbe meglio parlare di crisi. Sì, “crisi”, un termine che ho sentito pronunciare da Papa Francesco ed ancor prima da mia sorella, che studia il greco e che traduce in: separare, valutare, e perfino opportunità. È chiaro che siamo allora in una crisi terribile che ha comportato la necessità di separarci. La sola strategia con la quale cerchiamo di non aumentare le morti, ma è anche vero che dobbiamo cercare di vedere un’opportunità in questa situazione terribile. 

Ne sono convinto perché niente avviene per caso secondo me. Allora mi sono domandato quale può essere l’opportunità che questa situazione ci sta dando? Credo una ed una soltanto: ripensare al nostro modo di stare con gli altri. Non dico nelle nostre famiglie, con i nostri cari, che ci stanno accanto e con i quali viviamo in un modo nuovo e con più tempo. Invece penso proprio all’altro, le persone che non conosciamo e che a volte non facciamo niente per conoscere. 

Capire che l’altro non è qualcosa di diverso da noi, ma un pezzo di noi. Comprendere che se soffre qualcun altro, finiamo per soffrire tutti noi. Perché, in un mondo così strettamente collegato da permettere ad un solo virus di passare tra miliardi di persone, non esiste nessuno così distante da me da non potermi interessare del suo benessere. Credo che sia questo il senso di questo momento, questa l’opportunità: la capacità di ritrovarci tutti uniti in una maniera nuova, perché tutti insieme ce la faremo ad andare nuovamente avanti. Soltanto occupandoci gli uni degli altri, e senza più dimenticarci di nessuno anche magari della nostra casa Terra, perché come ha ricordato il Papa, non si può pensare di vivere da sani in un mondo malato.  

Credo che questo possa essere il senso di questa crisi. Mi auguro che, una volta finita, impareremo la lezione e sapremo lasciare andare tante cose superficiali che fin qui ci hanno, quelle sì, davvero separati e fatti vivere gli uni contro gli altri, dimenticando che apparteniamo ad un unica famiglia tutti, quella dell’umanità; e siamo tutti seduti sulla stessa barca chiamata Terra. 

Spero perciò che questo virus ci abbia tolto il fiato magari soltanto il tempo necessario a tuffarci in un nuova realtà, in un mondo fatto veramente a misura di tutti e per tutti.

di Ernesto Genova I C

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