di Francesca Cassandro

Mancano pochi giorni al Natale, ma questa, per Ibrahim, non è una festa segnata in calendario. Non è facile gioire della nascita di Gesù quando si vive in un Paese come la Siria dove l’unica festa concessa e quella di sopravvivere alle bombe.

Ibrahim ha cinque anni e i suoi occhi azzurri hanno visto cose che nessun bambino dovrebbe vedere. Il suo volto è bianco e magro come le colline innevate che circondano Azeir, una piccola città situata al confine con il Libano. Il sole qui ormai da lungo tempo non da più i sui raggi perché oscurato dal fumo degli incendi ed il cielo è come un velo grigio che si stende sulle case semidistrutta.

” Devi prendere le tue cose e andare via, Amal ti aspetta per portarti in Italia!”. 

A gridare queste parole è Marta, una soldatessa che si prende cura del piccolo siriano da quando, quattro anni prima era rimasto orfano di entrambi i genitori.  Ibrahim trema come una foglia al pensiero di partire; ha paura di cosa avrebbe trovato in Italia, ma soprattutto ha paura di quello strano sentimento di libertà che prova  per la prima volta nel suo animo. 

Amal, tuttavia, è la sua unica speranza per un futuro migliore. Amal -che in ebraico vuol dire speranza – è una giovane dottoressa alla quale è stato concesso un viaggio studio in una celebre università napoletana e, grazie al suo buon cuore, si è battuta  per poter fare affidare Ibrahim ad una famiglia di Napoli. Non c’è molto da preparare come bagagli, Ibrahim non ha tanti vestiti. Lui indossa ciò che trovava per strada o ciò che gli portano le famiglie vicine. Per Ibrahim così come tanti bambini del mondo costretti a subire le atrocità della guerra, è un lusso possedere giocattoli, e l’infanzia è un bene negato. L’unica cosa che Ibrahim può portare  con sé sono i ricordi, e quelli si sa, non occupano spazio in valigia. Appena il tempo di guardare per l’ultima volta quel grande stanzone della casa famiglia nel  quale ha trascorso   gli ultimi quattro anni della sua vita e si è fatta l’ora della partenza.

Il viaggio è molto silenzioso e le ore in aereo che li attendono non sono tante, ma ciò che snerva i due viaggiatori sono le attese ed i controlli ai confini. Il vento freddo asciuga le lacrime di Ibrahim che, chiuso in un cappotto più grande di due misure, nasconde  le mani nelle maniche per riscaldarle. 

Giunti all’aeroporto di Aleppo, il piccolo viaggiatore scoppia  in un pianto fortissimo. Erano anni che non piangeva, la guerra lo ha reso impermeabile ad ogni cosa ma il partire dalla sua terra natia è un’emozione troppo grande anche per lui, per quell’ometto silenzioso e coraggioso  tanto da guadagnarsi l’appellativo di piccolo sergente.

Saliti sull’aereo i due si addormentano. Si svegliarono soltanto pochi minuti prima dell’atterraggio, quando l’hostess  l’invita ad allacciare le cinture di sicurezza. Giunti a Napoli la prima cosa che colpisce Ibrahim  è il calore del sole che filtra attraverso le vetrate dell’aeroporto. Un calore ed un sole che asciugano le lacrime e riscaldavano il cuore.

Amal tiene stretto per mano il piccolo compagno di viaggio fino al momento dei saluti.

“Ora dobbiamo salutarci” dice Amal con la voce piena di pianto.

“Tu non vieni con me?” Chiede Ibrahim con le parole e con lo sguardo.

“No – risponde Amal- adesso devi andare ad affrontare la tua nuova vita e devi farlo da solo”. 

Un abbraccio forte segna per sempre la loro separazione quando ad un tratto si sente: “ciao io sono Gennaro, Jenni per gli amici!” Ibrahim non capisce nemmeno una parola di quello che sta  pronunciato questo bimbetto un po’ rotondetto tutto abbronzato nonostante il mese invernale. Jenny subito trova il modo per farsi intendere dal suo nuovo amico. Lo prende  per mano e lo trascina in auto; ancora qualche chilometro ed eccoli arrivati alla nuova casa.

“Benvenuto!” C’è scritto su di un cartello appeso fuori la porta. In casa tutto parla di Natale. E, sotto l’albero decine di regali portano un’etichetta con su scritto: per Ibrahim.

“Je suis à la maison!” cioè sono a casa! Dice il piccolo siriano.

È la lingua più comprensibile dopo l’ebraico per farsi comprendere. Ma l’abbraccio ricevuto da tutta la famiglia non ha bisogno di traduzioni, ancora una volta l’amore si è dimostrato essere la lingua universale.

 

 

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